Nella Polaroid del 1979, i boss giocano con i bimbi al mare: hanno appena ucciso Boris Giuliano e stanno per assassinare un giudice. Felici e latitanti. Come oggi sulle stesse spiagge Matteo Messina Denaro
Aguardarli così, in una foto quasi ingiallita e inedita, sembrano una famiglia normale. Una famiglia che si prende cura dei figli e gioca con loro al mare. Ma questa foto, mai vista prima, oltre a condurci indietro nel tempo, alla fine degli anni Settanta, ci fa calare in una Sicilia d’epoca dove si possono contestualizzare uomini e fatti e anche sensazioni di una società che in gran parte non sapeva o non voleva riconoscere i mafiosi. Ma ci conviveva. Molti lo hanno fatto per convenienza e altri invece per paura. Perché in questa foto il protagonista è Totò Riina (a sinistra), il capo di Cosa nostra, l’uomo che ha ordinato migliaia di omicidi, molti dei quali li ha pure eseguiti di persona, e poi le stragi. E con lui il cognato, Leoluca Bagarella, assassino di professione, sanguinario per passione.
La foto che “l’Espresso” pubblica in esclusiva sembra scattata con una Polaroid e potrebbe risalire all’estate del 1979. Entrambi in questo periodo erano latitanti. Dunque, due pericolosi ricercati che stavano tranquillamente in spiaggia. Fra un omicidio e l’altro. Una strage o l’uccisione di bambini e donne. Eccoli i due sanguinari che hanno messo a ferro e fuoco la Sicilia negli ultimi quarant’anni, a trascorrere una giornata al mare come se nulla fosse accaduto. Come se quell’estate di terrore del 1979 che avevano scatenato lasciando sull’asfalto decine di cadaveri non li riguardasse.
STA IN QUESTA IMMAGINE il vero volto della mafia. Quella di ieri, e pure quella di oggi. Mimetizzata prima e invisibile adesso agli occhi della gente. Di chi non vuole vedere e preferisce convivere con il male. In tanti all’epoca sostenevano che la mafia non esisteva come oggi a Roma moltissimi continuano a ritenere, nonostante gli arresti per associazione mafiosa degli uomini del clan di Massimo Carminati, che nella Capitale la mafia non c’è. E si sbagliano.
Guardandola bene questa foto dei due boss con i piccoli figli di Riina in acqua, e il sorriso di “Totuccio” e “Luchino”, ci si rende conto quanto la vita degli altri per loro non conti nulla. Perché se quell’immagine è stata scattata nell’estate del 1979, le mani dei due padrini si erano appena macchiate del sangue di un servitore dello Stato, un grande poliziotto che stava con il fiato sul collo dei corleonesi. Era Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo, che si era messo sulle tracce del latitante Bagarella. E sulle tracce dei miliardi di lire guadagnati dai boss con il traffico di eroina.
Il cognato di Riina per impedirgli di proseguire le sue indagini la mattina del 21 luglio di quell’anno terribile lo colse di sorpresa in un bar e gli sparò alle spalle. Aveva paura il sicario di affrontare il poliziotto guardandolo in faccia. I testimoni raccontarono che a Bagarella tremava la mano mentre sparava. Sei mesi dopo verrà arrestato durante un controllo a un posto di blocco. In carcere resterà fino a dicembre del 1990: la cella per lui si aprirà, come per altri boss, grazie a cavilli giudiziari. E tornerà a sparare e massacrare fino alla sua cattura definitiva nel ’95.
Totò Riina quando viene arrestato il 15 gennaio 1993 era latitante da 24 anni. E in questi due decenni era riuscito a mettere sotto terra i capimafia palermitani e conquistare la vetta di Cosa nostra, diventandone il capo supremo, un dittatore. «Non capivano con chi avevano a che fare», dice Riina intercettato in carcere mentre ricorda la latitanza e parla delle sue vittime: «Tutti sono diventati tonni... Mattanza di tonni è stata».
Riina racconta che per molti anni è stato considerato un mafioso come gli altri: “non si rendevano conto” che lui era diverso da tutti gli altri. E forse nemmeno gli altri capimafia suoi avversari si sono accorti della sua ferocia. Falcone e Borsellino invece avevano compreso lo spessore criminale di Riina, il paesano dalle “scarpe infangate”, personaggio ben diverso da quello che si sforzava di apparire. E solo dopo il loro sacrificio lo Stato gli ha dato seriamente la caccia, fino all’arresto.
QUANDO LA MATTINA del 15 gennaio 1993 il volto del capo dei capi apparve in televisione, sorprese tutti: nessuno immaginava che un personaggio così goffo, “curtu” (piccolo), dagli occhi spiritati, potesse essere il padrino feroce dipinto dalle cronache giudiziarie. Ma la storia di Riina è soprattutto l’epopea di un gruppo di picciotti di Corleone, malridotti e spietati allo stesso tempo, che danno la scalata alla gerarchia di Cosa nostra, che fino ad allora aveva le sue regole, le sue leggi e una sia pur distorta moralità. Teorico della violenza totale e dell’inganno sistematico, all’interno di un progetto lucidissimo quanto folle, eccidio dopo eccidio, Riina spazza via l’organigramma eccellente del parlamento mafioso. Il capo corleonese cancella le regole a colpi di tritolo. Ma come ha sostenuto Tommaso Buscetta, soltanto un potere superiore, una “entità”’, poteva assicurargli una fuga di 24 anni.
Una latitanza serena. Riina l’ha condivisa con la moglie, Ninetta Bagarella, e i quattro figli: Maria Concetta, nata nel 1974, Giovanni (1976), Salvatore Giuseppe (1977) e Lucia (1980). Tutti, incredibilmente, partoriti in una clinica di Palermo e registrati all’anagrafe. Come se fossero una famiglia normale.
Ninetta, maestrina di scuola, è la sorella di Leoluca Bagarella: è stata la prima donna siciliana inviata al soggiorno obbligato. Eppure Totò e Ninetta hanno seguito i riti delle coppie meridionali dell’epoca: la loro unione è stata consacrata nel 1966 dal matrimonio religioso. Lo celebrò padre Agostino Coppola, ambiguo mediatore in sequestri di persona poi condannato per mafia. Le nozze si svolsero in un appartamento al quinto piano di un condominio di largo San Lorenzo, a Palermo. Quando i carabinieri vi fecero irruzione era un covo ancora caldo: in un cassetto c’erano le partecipazioni nuziali che Ninetta aveva scritto a penna, una per una.
NEL PERIODO di questa foto, Riina viveva a Mazara del Vallo, in una villetta a pochi passi dal lungomare. Era protetto dai boss trapanesi, suoi alleati fidati da sempre. E passava le estati nei lidi fra Mazara e Triscina. Come dice lo stesso Riina, intercettato nella cella di Opera, stava “in villeggiatura” con tutta la famiglia e con suo cognato Bagarella. Lo stesso mare e la stessa spiaggia in cui adesso “villeggia” il capomafia trapanese latitante Matteo Messina Denaro. Un boss stragista amato da gran parte dei trapanesi, perché capace di creare consenso sociale, che potrebbe tuffarsi tra bagnanti e turisti, senza che nessuno possa accorgersi di avere accanto il ricercato numero uno. Che utilizza la stessa strategia mafiosa messa in atto da Massimo Carminati a Roma. Grazie ai soldi e alla paura, tengono in pugno i politici e gli imprenditori fanno da prestanome. Il modo nuovo di imporre lo stesso potere criminale.
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