È quello che resta della Amani Hill Research Station: una visione del futuro rimasta congelata nel passato. La fotografa siberiana Evgenia Arbugaeva è venuta qui due anni fa per documentare il senso di nostalgia che avvolge "questo luogo oscuro e magico".
A coinvolgere la fotografa è stato Wenzel Geissler, un antropologo dell'Università di Oslo che da qualche anno - assieme a un consorzio internazionale di scienziati, storici e artisti - sta studiando vecchi centri di ricerca ai tropici. Finanziato da Research Councils UK, il progetto esamina ricordi, percezioni e speranze delle persone che vissero e lavorarono in siti scientifici installati nell'era post-coloniale.
Amani non è in rovina. Trentaquattro membri del personale - anziani guardiani, manutentori, un bibliotecario e una manciata di assistenti di laboratorio - vivono ancora qui, nelle case ormai ridotte a gusci vuoti, senz'acqua né elettricità. Alcuni dicono di essere ancora in attesa dell'arrivo di altri addetti.
"Amani rappresenta il sogno di lasciare la scienza e il progresso in eredità ai popoli colonizzati", spiega Geissler. "Quando nei primi anni Ottanta vennero meno i finanziamenti, anche quei sogni si spensero. Ma in teoria sarebbe tutto pronto per ripartire. In questi edifici - come nei ricordi e nelle aspirazioni di questa gente - sopravvive l'idea di un futuro possibile".
Amani fu fondata alla fine dell'Ottocento dai colonizzatori tedeschi: ospitava una piantagione di caffè e un orto botanico. Dopo la Seconda guerra mondiale diventò un istituto di ricerca britannico sulla malaria. Dal 1979 è gestito dall'Istituto tanzaniano per la ricerca medica, che oggi paga lo staff perché preservi il sito in attesa che possa essere riutilizzato.
Arbugaeva ha trascorso molto tempo ad Amani, "leggendo a lume di candela i vecchi libri polverosi di storia naturale e medicina". E ha seguito come un'ombra John Mganga (nella foto), un ex assistente in pensione che dal 1970 al 1977 lavorò con l'entomologo britannico John Raybould piazzando reti e trappole per catturare insetti.
"Gli piaceva molto raccontarmi storie", dice la fotografa. "E anche sognare, immaginare che cosa fanno adesso le persone che lavoravano qui. Gli piace molto l'idea di far parte di qualcosa di più grande, di partecipare alla ricerca scientifica. Ha ancora un forte legame con Amani. E gli manca tanto".
Secondo Geissler, Arbugaeva è riuscita a trasformare in immagini i ricordi dei vecchi lavoratori sulle abitudini e i riti quotidiani di quando la stazione di ricerca era in funzione. "In questo modo possiamo leggere le tracce di un passato ordinato: un'idea di progresso in un paesaggio che oggi sembra fatto solo di rovine". Le fotografie, continua lo studioso, trasmettono un senso di "comune nostalgia... per una modernità che non fu mai davvero raggiunta".
Un topo bianco sotto una campana di vetro in uno dei quattro laboratori
della stazione di ricerca. Ad Amani c'è ancora una colonia di topi: un
assistente continua ad allevarli in caso dovesse riprendere l'attività
di ricerca.
"Regno della conoscenza e del silenzio", proclama un vecchio cartello
all'ingresso della biblioteca di Amani, usata molto di rado ma tenuta in
buone condizioni.
John Mganga mette in ordine uno scaffale. "La gente del posto pensava
che gli scienziati di Amani usassero le bottiglie per le loro pozioni
magiche", racconta la fotografa Evgenia Arbugaeva. I ricercatori
venivano chiamati mumiani, "vampiri" in swahili, perché prelevavano il sangue per studiare la malaria.
Ancora Mganga mentre si riposa in un laboratorio. "Lui ha davvero perso
qualcosa quando la stazione da ricerca ha chiuso", racconta
l'antropologo Wenzel Geissler. "Aveva davvero creduto che la scienza
potesse essere una parte integrante del futuro del suo paese. Viveva per
quel sogno, e ha molto sofferto quando è svanito".
Mganga mostra la collezione di insetti che, assieme all'entomologo Raybould, ha impiegato anni a raccogliere e studiare.
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