Sono 30 i minori sottratti per decisione
dei tribunali alle famiglie della ’ndrangheta e affidati a coppie o
comunità. Per i boss l’affronto peggiore. Perché così si spezza la trasmissione della cultura criminale .
ite al Dottore che i figli non si toccano». Per un boss la famiglia
conta più dei soldi e del potere. Perché figli, nipoti e mogli, ga ra
ntiscono la continuità dell’impero. Per questo il capo dei capi di
Reggio Calabria, Giuseppe De Stefano, ha reagito in malo modo quando il
pm Giuseppe Lombardo ha chiesto al tribunale d e i minor enni di far
decadere la patria potestà sui piccoli eredi. Un colpo durissimo per il
padrino dello Stretto che ha sempre reagito a processi, sequestri di
beni e latitanze, con un sorriso beffardo.
L’affronto, senza precedenti, aveva aperto una crepa profonda in quel
monolite criminale che da 40 anni dominava l’intera città. Educare la
prole a un avvenire da mafioso può avere conseguenze pesanti:
l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È questo il nuovo
fronte della lotta alla ’ndrangheta.
Nell’ultimo anno si sono
moltiplicati i provvedimenti di questo tipo e sempre più casi sono
finiti sotto la lente degli inquirenti.Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria è l’unico ad avere
intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora
sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità
del Nord. Dalle informazioni di cui è venuto a conoscenza “l’Espresso”,
il numero è destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge
alle famiglie, in questo modo non saranno più costretti a impugnare
pistole, ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e
studiare come tutti i ragazzi.Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel
pieno dell’adolescenza.
«È una misura che non si applica mai in maniera
leggera», spiega il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico
Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una
intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire
una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a
quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice
della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio,
l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno:
disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della
provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove
è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi,
ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si
comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o
latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al
crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». Il
legame di sangue in questa organizzazione non ha eguali nel mondo della
criminalità. E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate
negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di
molti bambini sia segnato per sempre.
EDUCAZIONE MAFIOSA
«Spara!». Il padre ordina, il figlio esegue. Ha solo 7
anni, ma deve già impugnare la pistola d’ordinanza. L’arte della ’ndrina
si apprende tra le mura domestiche. In un’altra casa, le cimici hanno
catturato in diretta una lezione di mafia: il patriarca spiegava
all’erede al trono, ormai sulla soglia della maggiore età, il
significato dei diversi gradi della gerarchia criminale. Ma ci sono
anche ragazzini che, ai piedi dell’Aspromonte, saltano la teoria per
apprendere direttamente sul campo. Come a San Luca, cuore delle
tradizioni dell’onorata società, dove durante l’ultima faida i più
giovani sono stati istruiti su come proteggere le abitazioni delle
famiglie da incursioni nemiche durante le faide. Nel processo Fehida,
che ha visto alla sbarra i carnefici della strage di Duisburg del
Ferragosto 2007, c’erano anche alcuni minorenni accusati di associazione
mafiosa e concorso esterno.
Crescono così i figli d’onore, fanciulli di ’ndrangheta,
costretti a immergersi nelle profondità più estreme dell’oceano
criminale da cui spesso non riemergono più. E se ci riescono, lo fanno
da cadaveri o ricompaiono, da adulti, nelle celle del 41 bis. Intere
dinastie sono state falcidiate nelle guerre: in soli quindici anni, per
esempio, la ’ndrina Dragone della provincia di Crotone ha perso il capo e
i suoi due figli maschi. Secondo gli ultimi dati del ministero,
aggiornati a ottobre 2015, in Calabria sono sei i minorenni accusati di
associazione mafiosa. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere,
morire o andare in galera, sono tappe di una carriera obbligata. La
stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce.
BATTESIMO D’ONORE
La «smuzzunata» è il battesimo da ’ndranghetista dei bimbi appena nati. È
un diritto e un privilegio che spetta solo ai figli dei boss. Un
marchio che trova legittimità in un codice parallelo, ancestrale e non
scritto. Che trasforma la famiglia naturale in ’ndrina, nucleo fondante
della mafia calabrese. «Quando la moglie di uno ’ndranghetista di grado
elevato mette al mondo un figlio maschio, quest’ultimo viene battezzato
nelle fasce con la “smuzzunata” e, per il rispetto goduto dal genitore,
entra a far parte dell’associazione sin dai primi giorni di vita.
Percorrerà così tutta la gerarchia mafiosa». Giuseppe Scriva, è il pentito
che a metà anni ’80 ha sviscerato i segreti della più potente tra le
mafie moderne. E sono proprio queste regole, tra mistero e leggenda, che
hanno garantito ai clan calabresi continuità generazionale. Le nuove
leve, i figli e nipoti degli anziani padrini, hanno lanciato la
’ndrangheta nel mercato della modernità, mantenendo intatto, però, il
dna arcaico. Sono giovani che investono milioni di euro a Roma come a
Toronto, ma legati indissolubilmente alle antiche regole della
“famiglia”.
AMARA TERRA
Negli ultimi vent’anni il tribunale dei minorenni di Reggio ha celebrato
cento processi per reati di mafia. Gli imputati erano rampolli non
ancora diciottenni delle cosche più blasonate. Giovanissimi ma con un
curriculum da malavitosi esperti. Le condanne non hanno, però, frenato
la loro ascesa criminale. Così a distanza di tempo c’è chi è rinchiuso
al carcere duro, chi, invece, è stato ucciso e chi ha conquistato il
vertice. Negli stessi vent’anni l’ufficio, ora diretto dal presidente
Roberto Di Bella, ha giudicato anche una cinquantina di casi di
omicidio. «Il dato impressionante è che abbiamo di fronte una
generazione che potevamo salvare e che invece abbiamo abbandonato»,
ragiona Di Bella, che dal suo insediamento ha dato vita a un protocollo
unico in Italia. È convinto che il documento firmato con procura dei
minori, antimafia e servizi sociali può davvero salvare molte vite dalla
morte e dal carcere. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di
persone processate negli anni ’90. Questo ci fa pensare che la
’ndrangheta si eredita», racconta nel suo piccolo ufficio-trincea.
L’anno della svolta è il 2012: «Da allora stiamo intervenendo con
provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il
conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare.
L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale».
Una misura estrema. Che ha sollevato molte critiche, anche da parte della chiesa.
È convinto che sia la strada giusta don Pino De Masi, vicario della
diocesi di Oppido-Palmi e referente di Libera nel territorio caldissimo
della piana di Gioia Tauro. «Dobbiamo mettere questi ragazzi nelle
condizioni di scegliere un’alternativa che non sia l’interesse della
cosca», è netto De Masi. «Nella mia parrocchia vengono anche i rampolli,
qualcuno timidamente mi dice che il cognome che porta gli pesa. Sta a
noi aiutarli a fare il passo successivo», spiega il parroco. Il fronte
degli scettici, invece, ha azzardato persino un paragone: «Dalla
confisca dei beni a quella dei figli». L’intervento del tribunale però
non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti
entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai
figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei
minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo
che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori
incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare
quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli
uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le
giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono
tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette
ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali.
I primi giorni dopo l’allontanamento sono i più difficili. Chi conosce i casi racconta di incubi che angosciano le notti dei bambini.
Sono pensieri di morte, con simboli ben precisi: bare, sangue,
violenza. I brutali insegnamenti riaffiorano nella nuova vita distante
dai papà-boss. Il tribunale si occupa anche dei minori colpevoli di un
reato e messi alla prova come alternativa al carcere. Vengono affidati a
comunità ma restano in Calabria. Continuano così a frequentare
l’ambiente di provenienza. La maggior parte respira cultura mafiosa da
quando è nato. Una mentalità che distorce il rapporto con le
istituzioni: «Ricordo un ragazzo, ospite di una comunità, con i tatuaggi
di un carabiniere sotto la pianta del piede, così da calpestare la
divisa a ogni passo, e il giuramento della ’ndrangheta sul cuore»,
racconta un operatore sociale.
MAMME RIBELLI
A volte per ribellarsi all’omertà è sufficiente percepire la presenza
dello Stato. Come spiegare altrimenti il gesto di quel gruppo di mamme
che ha chiesto aiuto al presidente Di Bella. Chiedono di essere portate
via insieme ai figli. Lontano dai mariti. È una piccola rivoluzione in
corso. L’avanguardia è fatta da una decina di madri che hanno deciso di
chiedere aiuto al tribunale e di collaborare. «È un fenomeno del tutto
nuovo. Queste signore hanno esperienze terribili alle spalle, quindi
vuol dire che i nostri provvedimenti stimolano a reagire. E c’è anche un
lieto fine perché molti dei casi trattati, inviati al nord, non
vogliono più tornare nei paesi d’origine», aggiunge il presidente. Non
sempre però il finale è dei migliori. I figli di Maria Concetta Cacciola
- la pentita che la famiglia ha spinto al suicidio per aver scelto di
andare via da Rosarno per collaborare con la giustizia - sono tornati
nel paese degli zii. Nel frattempo il padre che teneva segregata in casa
Maria Concetta è tornato in libertà. Gli educatori che lavorano con i
due adolescenti sono amareggiati, perché in quel contesto l’esempio
esplosivo di ribellione della loro mamma è stato depotenziato. «Il
figlio maschio è come se avesse rimosso la vicenda, è intriso purtroppo
di quella mentalità che sua madre ha messo sotto accusa», racconta una
fonte. Un’occasione di riscatto persa.
SISTEMA FRAGILE
Al civico 404 del corso principale di Reggio Calabria c’è un piccolo
ufficio che segue la gran parte dei casi di allontanamento. Attualmente i
ragazzi affidati a questa squadra sono dieci. Provengono tutti da
cosche affermate nel panorama criminale. «Interveniamo immediatamente
dopo la decisione del tribunale», spiega la dirigente Giuseppa Maria
Garreffa, che specifica: «Alla base di ogni allontanamento c’è sempre un
procedimento nei confronti dei genitori». In queste stanze si lavora
ininterrottamente. «Siamo sovraccarichi», sospira Garreffa, «ma
resistiamo». Finché questi giovani seguono il percorso studiato dal team
del ministero tutto sembra andare per il meglio. Poi, quando compiono
18 anni, sono liberi di tornare nel paese in cui sono nati. E una volta
rientrati il cognome pesa ancora come un tempo. «Il contesto in cui
tornano è spesso decisivo. Vengono accolti, “rieducati”, indottrinati.
Non dimenticherò mai quando un ragazzo ci disse: “grazie per quello che
fate, ma io devo... non posso scegliere”. Ecco, il dovere di seguire le
orme dei padri è la vera condanna di questa terra».
Come in “Onora il padre” di Gay Talese, il passaggio di consegne tra
padre e figlio è un automatismo che imprigiona i più giovani. Il figlio
del boss, per i compaesani, è sempre il figlio del boss. E va riverito.
Un meccanismo che molto spesso vanifica i risultati ottenuti lontano
dell’ambiente familiare. È un investigatore a raccontarci una scena che
ricorda il Padrino di Francis Ford Coppola: «In un paesone arroccato
nell’Aspromonte, al termine del funerale dell’anziano del clan si è
formata la fila per salutare con grande rispetto il capomafia e il suo
bambino, prossimo erede, che per l’occasione aveva fatto ritorno a casa
dalla struttura dei servizi sociali». Il passaggio è devastante: da un
luogo e una scuola in cui amici e compagni li considerano semplici
coetanei con cui giocare o fare i compiti, a una realtà in cui
l’etichetta di provenienza esercita ancora fascino sugli altri. «Se i
servizi sociali sono inadeguati, se non c’è lavoro, se manca il diritto
alla mobilità, come possiamo pensare di lottare contro una
multinazionale del crimine che offre denaro e successo immediato ai
giovani?», conclude Garreffa.
«Gli sforzi devono concentrarsi sul concedere, una volta finito il
percorso di allontanamento, delle opportunità legali a questi giovani.
Altrimenti si torna al punto di partenza», ragiona Di Bella. Una
soluzione la propone il pm Lombardo, il primo ad aver intrapreso, nel
2008, la strada del distacco forzato: «Prima di arrivare alla misura
estrema della revoca, si potrebbe immaginare un modello misto,
flessibile. Con percorsi di sostegno ai genitori che, però, devono
dimostrarsi volonterosi e pronti a tagliare con il passato».
IN PRIMA LINEA
S. ha un cognome ingombrante. Nella Locride molti tremano solo a
sentirlo pronunciare. Il suo sguardo però non è arrogante. Sorride
spesso, preferisce parlare in dialetto, anche se con l’italiano se la
cava abbastanza bene. Ha compiuto 18 anni da poco, e invece di dedicarsi
allo studio e al divertimento, ragiona già da manager navigato: «Ormai
in questa terra non si può più investire denaro», sussurra. Fa il
cassiere nell’hotel di famiglia, dissequestrato da poco. Guadagna 1.600
euro al mese. Non male per un ragazzo così giovane, in una provincia,
Reggio Calabria, ultima per qualità della vita secondo la classifica del
“Sole 24 Ore”, che comprende tra gli indicatori il tenore di vita e
l’occupazione. Incontriamo S. in una saletta del centro don Milani, un
punto di riferimento per gli adolescenti di Gioiosa Marina e Gioiosa
Ionica. Comuni attaccati, con due sindaci e due giunte differenti.
Nella piazza di Gioiosa Ionica c’è un murale dedicato a Rocco Gatto: il
mugnaio comunista ucciso dalla ’ndrine del paese per non essersi piegato
alle loro richieste. È il simbolo dimenticato della Locride anti
’ndrangheta. Il suo omicidio doveva servire da monito per tutto il
neonato movimento antimafia. All’inizio di dicembre, invece, il nuovo e
giovane sindaco, Salvatore Fuda, è stato minacciato con alcuni colpi di
pistola sparati sulla fiancata dell’auto. La violenza è il ponte che
lega il passato e il presente di questi luoghi. S. è cresciuto a
Gioiosa. Si presenta all’appuntamento ben vestito, il suo abbigliamento è
tutto firmato. L’orologio costoso di metallo nero al polso destro, il
bracciale d’argento in quello sinistro. S. sogna di trasferirsi in
Canada, dagli zii. Per il momento si divide tra la cassa dell’albergo e
il commercio di olio in società con il fratello. È finito al don Milani
per tre bravate, l’ultima è guida senza patente: «Guidavo una moto 125,
che sarà mai?», sorride. Il tribunale gli ha concesso la messa alla
prova, che prevede un percorso di volontariato. Il responsabile del
centro è Francesco Riggitano e tutto il tempo che ha disposizione lo
dedica ai ragazzi di questi paesi della Locride.
«Ci sono famiglie mafiose storiche, importanti, nelle quali la
trasmissione mafiosa è evidente. La nostra esperienza ci dice però una
cosa: si incide più facilmente sulla manovalanza, su quei ragazzi le cui
famiglie non sono criminali da generazioni. Diverse mamme di questi
soldatini si sono rivolte a noi per toglierli dalla strada». Il centro è
frequentato da tanti ragazzi. Una risorsa straordinaria in questo
deserto della Locride. D’altronde crescere qui, o a Rosarno, o tra i
boschi dell’Aspromonte, oppure nel quartiere Archi di Reggio Calabria, è
una lotta quotidiana. Non ci sono cinema, teatri, polisportive. Sale
giochi e strade abbandonate diventano gli unici spazi di aggregazione.
Al Don Milani c’è anche una squadra di calcio, la Seles (acronimo di
Scuola Etica e Libera di Educazione allo Sport), diventata un punto di
riferimento per bambini e adolescenti. Gli allenamenti hanno strappato i
giovani dalla strada. Simbolicamente è come aver dato un calcio alla
’ndrangheta. Per Riggitano e i suoi collaboratori non è tutto facile,
anzi. «Su 42 comuni della Locride, solo il 30 per cento di questi ha
assistenti sociali di ruolo», denuncia Francesco. Troppo pochi per
svuotare le madrasse dei clan, che trasformano ragazzini senza
possibilità in picciotti d’onore./mafiaevolutionfilm.net/
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